…mi sono incamminata lungo la Ceronda, un torrente che affianca il Parco della Mandria, nei pressi di Torino. Accompagnata da qualche anatra e una nutria mi sono avvicinata alla Reggia di Venaria. Mi aspettava una mostra fotografica, meglio l’aspettavo ormai da un po’. I miei passi sull’acciottolato erano lievi, come il mio stato d’animo.

Il primo impatto con gli scatti, in bianco e nero, è stato come un botto. In un attimo sono caduta in un’atmosfera fatta di guerra, povertà, orgoglio e disperazione frammisti tra loro. Sguardi mi parlavano di profonda ingiustizia. La loro forza, lo sgomento e la rabbia mi sono piombati addosso. Ho cercato di sentire il più possibile cosa ognuno poteva o voleva dirmi. Dolore, determinazione, fierezza, odio, fragilità, paura, impotenza… ho letto forti sentimenti sino a sentirmi piccola non tanto perché impotente, ma perché assente. Quell’assenza che nasce da lontananza, freddezza, distacco, comodità nello stare in vite facili. La mia pancia ha iniziato a ribollire, sino a farsi contratta, le dissonanze sono apparse nette.

Il mio comunicare è stato a senso unico: un assorbire il sentire di quei tanti sconosciuti, diventare vicina a loro, per come mi stavano guardando, per le pieghe dei loro visi, per le loro mani, per i loro vestiti… ogni particolare dice.

Mi sono portata a casa una sottolineatura: nessuno è così lontano da non poterci parlare. A chi ci è vicino si può dare una “carezza”. Negli occhi si colgono la sofferenza psicologica o fisica, a partire dagli occhi qualcosa si può iniziare a fare.

E’ solo l’immobilismo che ci rende sempre più insensibili e chiusi. All’opposto della chiusura c’è l’apertura. Stare attenti al fuori di noi è l’unico modo che abbiamo per essere presenti agli Altri.

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